La mattina del 2 settembre 1870 giunse a Firenze, allora capitale d'italia, la notizia che l'esercito francese del generale MAC MAHON dopo ripetuti tentativi di rompere l'assedio di Metz, a Sédan era stato sbaragliato, che la piazza si era arresa; e poche ore dopo giunge la clamorosa notizia che Napoleone III era stato fatto prigioniero dai prussiani.Quel giorno stesso i deputati di sinistra inviarono al governo un ultimatum per l'occupazione militare immediata di Roma, minacciando di dimettersi. E poiché l'agitazione in Italia, dove in ogni contrada si levava la voce "liberazione di Roma", e le agitazioni assumevano aspetti preoccupanti, il ministero discusse se era il caso di occupare immediatamente la futura capitale, ma solo il 5 settembre, dopo che fu giunta la notizia della decadenza della dinastia napoleonica e della proclamazione della repubblica in Francia, fu deliberata l'immediata occupazione. Ormai i francesi erano quasi tutti sloggiati, e così Sedan oltre aver segnato il crollo dell'Impero Francese faceva contemporaneamente crollare il potere temporale della Chiesa. L'occasione d'oro per avere Roma era dunque venuta, grazie ai Prussiani.
Il 7 settembre fu spedita a tutte le potenze dal ministro degli esteri una circolare in cui si dava comunicazione della deliberazione presa dal governo italiano di andare a Roma e si esponevano le garanzie che il Pontefice avrebbe avuto a tutela della sua indipendenza. Il giorno dopo, il presidente del Consiglio LANZA inviò a Roma, assieme a ALESSANDRO GUICCIOLI, il conte PONZA di SAN MARTINO, quale ambasciatore straordinario al Papa per pregare il cardinale ANTONELLI e le truppe pontificie di evitare la resistenza che poteva causare danni gravi alla Chiesa minacciata dai partiti estremi e per dire, fra le altre cose, al Pontefice che il governo italiano era "fermo nell'assicurare le garanzie necessarie all'indipendenza spirituale della S. Sede e farle anche argomento di future trattative fra l'Italia e le Potenze interessate". L'ANTONELLI dichiarò che la S. Sede non poteva rinunciare a nessuno dei suoi diritti, ed affermò trattarsi quell'occupazione una vera e propria violenza "non giustificata neppure dal pericolo di una rivoluzione perché Roma era in tale condizione di tranquillità, da escludere questa supposizione".
Il 10 settembre, PONZA fu ricevuto da PIO IX, al quale consegnò una lettera autografa di Vittorio Emanuele II con la quale il sovrano diceva di rivolgersi al cuore del Pontefice."Con affetto di figlio, con fede di cattolico, con lealtà di re, con animo d'Italiano" dichiarava che mandava le sue milizie a Roma per impedire le violenze del partito rivoluzionario, per mantenere l'ordine e garantire la sicurezza del Papa e chiedeva infine l'apostolica benedizione. Pio IX ebbe scatti di sdegno e ad un tratto esclamò: "Non sono profeta, né figlio di profeta, ma vi assicuro che a Roma non entrerete".
Il giorno 11, Pio IX rispose con la lettera seguente: "Maestà, il conte Ponza di San Martino mi ha consegnato una lettera, che a V . M. piacque dirigermi: ma essa non è degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica, e si gloria di regia lealtà. Io non entrerò nei particolari della lettera per non rinnovellare il dolore che una vostra precedente mi ha cagionato . Io benedico Iddio, il quale ha sofferto che Vostra Maestà riempia di amarezza l'ultimo periodo della mia vita. Quanto al resto, io non posso ammettere le domande espresse nella Sua Lettera, né aderire ai principi che essa contiene. Faccio di nuovo ricorso a Dio, e pongo nelle mani di lui la mia causa che è interamente la Sua. Lo prego a concedere abbondanti grazie a V. M. per liberarla da ogni pericolo e renderla partecipe delle misericordie ond' Ella ha bisogno". La precedente "dolorosa" lettera di Vittorio Emanuele che il Papa cita, conteneva la seguente frase: "Ho udito spesso, e ho letto nei libri approvati dalla Chiesa, che qualche volta Iddio nei suoi alti e imperscrutabili fini si è servito di una Papa per castigare un Re e di un Re per castigare un Papa, ardì una volta il re, e se Sua Santità non poteva riconoscere né benedire il re d'Italia, riconoscesse in lui almeno uno strumento della Provvidenza usato per quei fini che superano l'umana penetrazione". Il Papa gli rispose allora "posso solo compatirvi moltissimo e cercherò tuttavia di ottenere per S.M. la divina protezione di cui Ella ha bisogno".
A Vittorio Emanuele la divina protezione gli giunse dai Prussiani, vincitori, che piegarono repentinamente i Francesi, e senza quest'ultimi, arrivava la buona occasione per entrare a Roma. Infatti, il giorno stesso che il Conte Ponza era in udienza dal Pontefice, il consiglio dei ministri ordinava che il corpo di spedizione concentrato nell'Umbria penetrasse nello Stato Romano. Le truppe erano quelle del corpo d'osservazione, che, costituito il 14 agosto, diventava ora IV corpo d'esercito. Era di circa 50.000 uomini ed era formato dalla 2a divisione del luogotenente generale NINO BIXIO (brigate Cavalchini e De Vecchi), della 9a del luogotenente generale ANGIOLETTI (brigate De Sauget e Migliora), della 11a del luogotenente generale E. COSENZ (brigate Bottacco e di Buri), della 12a del maggior generale conte GUSTAVO MAZÈ DE LA ROCHE (Brigate Angelino e Carchidio) e della 13a del maggior generale E. FERRERO (brigate De Fornari e Bessone). Comandante in capo era il luogotenente generale RAFFAELE CADORNA, che aveva come capo di Stato Maggiore il colonnello PRIMERANO e il quartier generale a Terni. I nomi più appariscenti erano quelli del Cadorna e del Bixio. Il Cadorna, benché provenisse parlamentarmente dalla sinistra, era noto per fede cattolica sicura per il suo vagheggiare conciliazioni e accomodamenti, che lo facevano piuttosto propendere verso il clericalismo. Giustamente reputato come militare, il governo lo aveva più volte, e con lode, adibito come repressore e moderatore nei tumulti civili. Saperlo a capo dell'impresa di Roma doveva rassicurare il Papa, i credenti, i governi europei, che quell'impresa non avrebbe superato i limiti strettamente necessari, né che avrebbe trasceso in persecuzioni e in offese alla Religione.
Dall'altro lato il concorso dell'irruento Bixio, che poco prima aveva detto in parlamento che bisognava gettare tutti i cardinali nel Tevere, doveva bastare per far deporre ogni velleità di resistenza, accertando come all'Italia, non mancassero forze e strumenti per imporre la sua volontà ad ogni costo. Era bello e opportuno - si disse- che ad un fatto, cui davano mano concordemente la rivoluzione governativa e quella pura, cooperasse un generale dell'antico esercito subalpino e un altro che impersonava nel modo più spiccato l'esercito garibaldino e quello popolare". Entrando in azione, il Cadorna lanciò agli Italiani delle Province Romane il seguente proclama:"Il Re d'Italia mi ha affidato un'alta missione della quale voi dovete esser e i più efficaci cooperatori. L'esercito, simbolo e prova della concordia e dell'unità nazionale, viene tra voi con affetto fraterno per tutelare la sicurezza d'Italia e le vostre libertà. Voi saprete provare all'Europa come l'esercizio di tutti i vostri diritti possa congiungersi con il rispetto alla dignità ed alla autorità spirituale del Sommo Pontefice. L'indipendenza della Santa Sede rimarrà inviolabile in mezzo alle Libertà cittadine, meglio che non sia mai stata sotto la protezione degli interventi stranieri. Noi non veniamo a portare la guerra, ma la pace e l'ordine vero. Io non devo intervenire nel Governo e nelle amministrazioni, cui provvederete voi stessi. Il mio compito si limita a mantenere l'ordine pubblico ed a difendere l'inviolabilità del suolo della nostra patria comune".
Nella notte dall'11 al 12 settembre le truppe regie varcarono il confine. Il 12 il Bixio occupò senza colpo ferire Montefiascone. Quello stesso giorno, dopo un'ora di fuoco, Civita Castellana si arrese al CADORNA e nel pomeriggio Viterbo a FERRERO, che la mattina del 14 giunse a Monterosi.
Il mattino del 15 settembre BIXIO investì dal lato di terra Civitavecchia, mentre la squadra dell'ammiraglio DEL CARRETTO la investiva dal mare. La piazza, allo scadere delle dodici ore concesse dal Bixio, capitolò. Al presidio comandato dal colonnello SERRA furono accordati gli onori militari; ai soldati furono lasciati i bagagli ed agli ufficiali anche le armi; a tutti gli Italiani si garantì il grado e lo stipendio, agli stranieri il rimpatrio. Tutto il materiale del governo pontificio passò all'Italiano, eccetto il bucintoro papale Immacolata Concezione che fu lasciato a disposizione del Santo Padre.
Il 15 settembre, CADORNA, dalla Porta della Storta, mandò un parlamentare al generale KANZLER, comandante in capo delle truppe pontificie, chiedendo in nome del Re d' Italia l'ingresso delle truppe italiane in Roma per "occupare militarmente" la città e "tutelare l'ordine", ma il generale pontificio rispose con un rifiuto, dicendo: "Sua Santità desidera di vedere Roma occupata dalle proprie sue truppe e non da quelle di altri sovrani".
Il 16 settembre, CADORNA mandò un altro parlamentare, il generale CARCHIDIO, ad annunciare la resa di Civitavecchia e ad esortare che si evitasse di spargere inutilmente del sangue, ma il KANZLER oppose un altro rifiuto, espresso questa volta con termini abbastanza arroganti. Allora il Cadorna cominciò l'assalto della città che il 16 era già compiuto. La divisione Ferrero si collocò davanti a Porta S. Lorenzo, quella del Mazè a Porta Pia, quella dell'Angioletti a Porta San Giovanni, quella del Cosenz a Porta Salaria, quella del Bixio a Porta San Pancrazio; il quartier generale fu posto a Casal dei Pazzi dove fu trasferito da Villa Spada.
Qui il 17 settembre era venuto il conte ARMIN, ministro prussiano presso la S. Sede, il quale aveva chiesto che l'attacco fosse differito di ventiquattro ore per tentare di convincere il Pontefice di abbandonare ogni proposito di resistenza, ma il giorno seguente, riuscito vano il suo tentativo aveva informato il Cadorna del fallito impegno.
La sera del 18 settembre a CADORNA giunse questo telegramma del ministero: "Essendo esauriti tutti i mezzi conciliativi, il governo del re ha deciso che le truppe operanti sotto i di lei ordini debbano impadronirsi con la forza la città di Roma, salvo sempre la città Leonina, lasciando alla S. V. la scelta del tempo e dei mezzi .... Le condizioni politiche richiedono più che mai prudenza, moderazione e prontezza".
L'attacco fu deciso per il 20 settembre e la mattina di quel giorno fu aperto il fuoco prima contro i Tre Archi, Porta Maggiore e Porta Pia, poi tra porta Salaria e Porta San Giovanni e infine tra Villa Pamphili e Porta S. Pancrazio. Ben presto a Porta San Giovanni le artiglierie furono sbaragliate e la porta sfondata, anche le artiglierie di Porta Salaria e Porta Pia furono in breve ridotte al silenzio e presso quest'ultima porta alle dieci del mattino fu aperta una larga breccia per la quale una colonna italiana, il 39° battaglione di fanteria e il 34° battaglione bersaglieri, penetrò nella città di Roma. Poco dopo, costatata l'impossibilità di un'ulteriore resistenza, i Pontifici innalzavano la bandiera bianca sulla cupola di San Pietro. L'azione era finita. Gli Italiani avevano avuto centocinquanta feriti, 45 soldati e quattro ufficiali morti; fra questi ultimi il maggiore PAGLIAI del 34° battaglione ed AUGUSTO VALENZIANI, luogotenente nel 40° fanteria; i papalini 19 morti e quaranta feriti. Cessato il fuoco fu consegnata al Cadorna questa lettera del Kanzler: "Quantunque non siano ancor esauriti i mezzi di difesa, S. S. avendo sufficientemente constatato che Roma, inalterabilmente tranquilla nel suo interno, non cede che alla violenza; nel desiderio di evitare ulteriore spargimento di sangue, mi dà l'ordine di desistere dalle ostilità, purché si possano ottenere condizioni onorevoli". Allora tra il generale CADORNA e il colonnello CARPEGNA si stabilì che le truppe pontificie si sarebbero ritirate nella Città Leonina e le italiane avrebbero occupato il resto di Roma.
A mezzogiorno cominciarono ad entrare i primi reggimenti italiani accolti con grande entusiasmo dal popolino romano. Nel pomeriggio il maggiore RIVALTA e il colonnello PRIMERANO rispettivamente capo di Stato Maggiore del Kanzler e del Cadorna, concludevano la capitolazione, subito ratificata dai due generali, secondo la quale Roma, eccettuata la Città Leonina, doveva essere consegnata alle truppe italiane insieme con bandiere, armi, munizioni e magazzini, e le truppe pontificie sarebbero uscite con l'onore delle armi per esser poi disarmate e rimpatriate quelle straniere, costituite in deposito le indigene.
Il 21 settembre il CADORNA fece l'ingresso ufficiale in Roma. Quel medesimo giorno il KANZLER scriveva al comandante in capo del IV corpo:
"La Santità di Nostro Signore mi incarica significarle che desidera che Ella prenda delle disposizioni energiche ed efficaci per la tutela del Vaticano, mentre essendo state sciolte le sue truppe, non ha modo d'impedire che perturbatori dell'ordine, emigrati ed altri, vengano a fare schiamazzo e disordini sotto la Sua residenza sovrana". Così il 21 settembre anche la Città Leonina fu occupata dalle truppe italiane.
Per evitare che il governo della città cadesse nelle mani dei partiti estremi, sollecitato dal duca di SERMONETA, il 23 CADORNA costituì una Giunta di Governo, di cui fu presidente MICHELANGELO CAETANI, duca di Sermoneta, e membri furono il principe FRANCESCO PALLAVICINI, EMANUELE RUSPOLI, il duca FRANCESCO SFORZA CESARINI, il principe BALDASSARE ODESCALCHI, IGNAZIO BONCOMPAGNI dei principi di Piombino, l'avvocato BIAGIO PLACIDI, l'avvocato RAFFAELE MARCHETTI, l'avvocato VINCENZO TANCREDI, VINCENZO TITTONI, PIETRO DE ANGELIS, ACHILLE MAZZOLENI, FELICE FERRI, AUGUSTO CASTELLANI, ALESSANDRO DEL GRANDE, il prof. CARLO MAGGIORATI, FILIPPO COSTA e FRANCESCO PALLAVICINI.
Il 2 ottobre ci fu il plebiscito con la formula "Vogliamo la nostra unione al regno d'Italia sotto il governo del re Vittorio Emanuele II e dei suoi successori". Il risultato fu: su 167.548 iscritti votarono 135.188 di cui 133.681 per il sì, 1507 per il no. I risultati del plebiscito il 9 ottobre furono portati al Re a Firenze, a Palazzo Pitti, da una commissione presieduta dal duca di SERMONETA, il quale disse al sovrano: "Roma colle sue province, esultante di riconoscenza verso V. M. gloriosissima per averla liberata dalla oppressione di armi mercenarie con il valore dell'esercito italiano, ha con generale plebiscito acclamato per suo Re la M. V. e la sua reale discendenza. Tale provvidenziale avvenimento, dopo sì lunga ed amorevole aspettazione di tutti i popoli d'Italia, compie la storica corona che rifulge sul capo della M. V.".
A queste parole il re rispose: "Infine l'ardua impresa è compiuta e la patria ricostituita. Il nome di Roma, il più grande che suonò sulle bocche degli uomini, si ricongiunge oggi a quello d'Italia". Quello stesso giorno furono emanati due decreti regi: con uno si stabiliva che Roma e il suo territorio facevano parte del regno d'Italia e vi si mettevano in vigore lo Statuto e le altre leggi dello Stato, con l'altro era nominato luogotenente per governare la nuova provincia ALFONSO LA MARMORA, il quale l'11 ottobre prese possesso del suo ufficio.
Dodici furono i combattenti, provenienti dai Comuni del Mandamento Dianese, che parteciparono alla Campagna di guerra del 1870 per l'occupazione di Roma , i loro nomi erano:
ARDISSONE AGOSTINO da DIANO BORELLO -
BATT.FANTERIA-REG.TO GRANATIERI
ARDUINO GIACOMO da VILLA FARALDI -
BATT. BERSAGLIERI-3° REG.TO
BIGA GIACOMO GIOBATTA da DIANO BORELLO -
BATT. BERSAGLIERI-5° REG.TO
CAVALLERI GIACOMO da DIANO BORELLO -
BATT. FANTERIA
COMOTTO GIOBATTA da DIANO MARINA -
BATT. FANTERIA-REG.TO GRANATIERI
GAGLIOLO PIETRO da VILLA FARALDI -
BATT. BERSAGLIERI-3° REG.TO
GARELLO DOMENICO da VILLA FARALDI -
BATT. FANTERIA
MASCARELLO LUIGI da DIANO CASTELLO -
BATT. FANTERIA-REG.TO GRANATIERI
RAMELLA EMANUELE da DIANO CALDERINA -
BATT. FANTERIA
ROSSO RAFFAELE da DIANO CASTELLO -
BATT. BERSAGLIERI-3°REG.TO
TERRIZZANO FRANCESCO da CERVO -
BATT. BERSAGLIERI-5° REG.TO
TOMATIS FEDELE da SAN BARTOLOMEO DEL CERVO -
BATT. FANTERIA-REG.TO GRANATIERI