G. Garibaldi - Associazione Culturale Ambrogio Viale - Cervo (IM)

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G. Garibaldi

Conferenze

Bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi - Cervo, 7 lug. MMVII

Conferenza di Mino Vernazza
Presidente dell'Associazione Culturale "Ambrogio Viale"

Non è senza emozione che prendo la parola per ricordare i duecento anni della nascita di Giuseppe Garibaldi, l’eroe più leggendario del nostro Risorgimento nazionale.

Un uomo che tutto il mondo ha ammirato per il suo coraggio e per il suo valore, un’inesauribile combattente per la libertà e l’indipendenza dei popoli, un pioniere della lotta per l’emancipazione dei lavoratori, della giustizia e dell’uguaglianza sociale.

Una figura umana e storica che è,  tra gli italiani,  tanto famigliare quanto forse poco conosciuta.

Il suo esempio, le nobili tradizioni di sacrificio, di lotta, di amore per il proprio paese, per l'Italia e per gli italiani, appartiene ad un patrimonio che è di tutta la nazione ed è in primo luogo di tutti coloro che esaltano e difendono i valori ideali e morali che animarono la sua lotta.
Sono da un lato i sentimenti di una coscienza nazionale che si ricollega ad una più vasta ed universale concezione internazionalista dei diritti dell'uomo e dei diritti dei popoli, dall'altro ad un senso profondo della giustizia sociale e dell’eguaglianza unita alla consapevolezza dei diritti e dei doveri che questo comporta.

1) Le radici della nostra democrazia

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La celebrazione del bicentenario della nascita di Giuseppe Garibaldi deve servire ad approfondire la conoscenza storica di fatti, di idee e di uomini, che hanno fatto cadere barriere, vinto pregiudizi, acceso speranze e contribuito, pur in mezzo a limiti ed errori, alla realizzazione di un'Italia moderna.

Sono l'occasione e per una riflessione critica sulle radici più antiche e più eroiche della nostra civiltà democratica, della nostra Repubblica fondata sul lavoro, e sulle stesse nostre radici che risalgono ad una concezione democratica, pacifica, realistica e concreta degli ideali e della lotta sociale.
Servirebbero a poco, celebrazioni retoriche.
Serve la conoscenza dei fatti, degli esempi, della temperia morale nella quale furono vissute grandi imprese; dalle quali non può non nascere uno stimolo morale per affrontare i problemi e le difficoltà di oggi e del futuro che abbiamo di fronte.
Benché tanto diversi per portata e per significato, essi richiedono egualmente un grande impegno, un grande coraggio, una grande dedizione verso le cause giuste che segnano il cammino del progresso di un popolo e di una nazione e della comunità internazionale.
Serve in primo luogo l'incontro tra le generazioni dei giovani e le esperienze, le aspirazioni e i contrasti delle generazioni che le hanno precedute, non per una astratta contemplazione ma per ricavare dalla storia, secondo i canoni di una saggezza antica e non contraddetta, motivi di insegnamento, di riflessione, di solido ancoraggio morale.
Ricordando Garibaldi vorrei soffermarmi sui fatti che furono teatro di una profonda e convinta adesione alla lotta per l'indipendenza e per la libertà che vide in prima fila le popolazioni, i patrioti e i combattenti Liguri.
Qui voglio ricordare il cittadino cervese Ambrogio Viale che fu nel 1797 tra i padri fondatori della Repubblica Ligure Democratica.
Le sue idee di libertà fraternità ed eguaglianza furono sempre ampiamente condivise dalla maggioranza dei cervesi.

Con ardore, parteciparono attivamente ai moti del 1821, del 1831, alle guerre d’indipendenza, alla spedizione dei mille e alla breccia di Porta Pia. Furono oltre settanta, con 108 partecipazioni alle varie campagne, i cittadini Cervesi che combatterono nell’epopea risorgimentale.

Fra questi caddero combattendo nelle guerre d’indipendenza:
FRAVEGA Agostino, NOVARO Giacomo Domenico, ORDANO Domenico, RITTORE Angelo Gerolamo, TERRIZZANO Giuseppe Luigi.

Si distinsero per fatti d’armi:
RECCO Agostino (a capo degli studenti genovesi nei moti del 1821. Condannato a morte, riuscì a rifugiarsi in Spagna dove, come volontario, combattè per la libertà nelle file dell'esercito costituzionalista);
VIALE Domenico (incorporato nella brigata Genova partecipò, nel 1821 ad Alessandria, ai moti insurrezionali in Piemonte e, condannato a morte, riuscì a rifugiarsi in Spagna dove, col grado di tenente dell’esercito costituzionalista, combattè per la libertà di quel paese);
LOMBARDI Domenico Giovanni Battista (partecipò alla Spedizione dei Mille. Capitano componente dello stato maggiore del generale Garibaldi, gli venne affidata la direzione di tutti i telegrafi militari del Regno Borbonico. Per la sua impresa fu decorato di medaglia d’argento al valor militare);
VIALE Angelo Giuseppe (decorato di medaglia d’argento al valor militare per essersi distinto nell’episodio di Gaeta l’ 8 gennaio 1861);
TERRIZZANO Francesco Domenico (componente del 3° reggimento bersaglieri, partecipò il 20 settembre 1870 alla breccia di Porta Pia e all’occupazione di Roma).

Trovo incredibile come tanta polvere di vario genere e di vario colore sia tanto rapidamente finita su figure e fatti di un'epoca, di così poche generazioni lontano da noi, e che fu un'epoca decisiva per la storia del nostro Paese e nella quale una lotta animata da un idealismo senza frontiere determinò lo straordinario corso degli avvenimenti. Garibaldi, che amava Nizza, dove era nato il 4 luglio 1807, amava anche profondamente la Liguria. Egli era nato in una famiglia ligure, originaria di Chiavari: il padre era nato a Genova e la madre a Loano. A Genova era stato inviato a completare gli studi che non completò per seguire la vocazione marinara della sua famiglia. A sedici anni era già imbarcato sulla sua prima nave dove fece il suo noviziato sul mare, attraverso i porti liguri e le rotte del Mediterranno con il comandante Sanremese Capitan Pesante.

2) Il filone umanitario e solidaristico

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A venticinque anni aveva già il suo primo brevetto di capitano ed il suo primo comando, e già cominciava a mescolarsi con la lotta politica e con la cospirazione liberale che si organizzava in Italia e in Europa contro l'assolutismo e la conservazione, iniziando ad appassionarsi alle dottrine sociali di scuola francese, attratto in particolare da quel filone umanitario e solidaristico che poi coltivò e approfondì per tutta la vita. Garibaldi si affiliò alla Giovane Italia, dopo aver conosciuto Giuseppe Mazzini, ed è proprio a Genova, come seguace di Mazzini, che si getta nella sua prima avventura politico-rivoluzionaria. Mazzini e la Giovane Italia progettano una invasione del Regno di Sardegna ed una invasione di Genova, siamo nel 1834, ed il giovane Garibaldi ha ventisette anni quando si arruola nella regia Marina con lo scopo di fare proseliti in vista della progettata insurrezione.
Il tentativo fallisce e Garibaldi, braccato dalla polizia, riesce a fuggire, è accolto a Cervo nella casa del capitano Domenico Terizzano, da dove poi proseguirà per la Francia dove tre mesi dopo lo raggiunge la notizia della sentenza con la quale la Corte marziale militare e navale di Genova lo condanna, dice il testo, «alla pena di morte ignominiosa, dichiarandolo esposto alla pubblica vendetta come nemico della Patria e dello Stato, ed incorso in tutte le pene e pregiudizi imposti dalle Regie leggi contro li banditi di primo catalogo».
È il primo regalo di quella monarchia piemontese alla quale Garibaldi, ventiquattro anni dopo, finirà per regalare un regno. Bollato come bandito, al cittadino sardo Giuseppe Garibaldi non resta che la via dell'esilio.
Un lungo esilio, che trascorrerà nell'America del sud, dove con i suoi amici fraterni, tra cui il Cervese Domenico Terizzano, combatterà contro dittature e tiranni in nome della libertà e della indipendenza di quei popoli. In Sudamerica conosce una vita dura, ma quando torna in Italia è ormai un esperto comandante militare il cui nome è già circondato da un alone di leggenda.
Partito da Genova nel '34 vi ritorna nel 1848.
Accorre in Italia per dar man forte ai moti insurrezionali di quell'anno.
Il 30 luglio parla a Genova in una grande riunione che ha luogo al Circolo nazionale e si schiera senza indugio a fianco dei piemontesi contro gli austriaci, nel suo modo di vedere le cose la questione nazionale sopravanza ogni altra ed il primo fondamentale problema è quello della unità nazionale.

3) L'indipendenza nazionale

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Lo afferma a chiare lettere in quel suo primo discorso genovese: «Si dia bando ai sistemi politici, non si aprano discussioni sulla forma di governo, non si destino partiti. La grande, l'unica questione del momento è la cacciata dello straniero, è la guerra di indipendenza. Io fui repubblicano, ma quando seppi che Carlo Alberto s'era fatto campione d'Italia, io ho giurato di obbedirlo e di seguire fedelmente la sua bandiera».
Non sono esattamente gli stessi sentimenti di stima e di amicizia che gli corrisponde il monarca piemontese, il quale, dopo un incontro con Garibaldi, scrive al suo ministro della guerra: «M'affretto ad informarvi d'aver concesso udienza oggi al celebre generale Garibaldi, venuto dall'America e giunto a Genova, dove ha lasciato sessanta dei suoi discepoli che mi ha offerto insieme alla sua persona. Dato che penso che verrà a Torino dove non gli mancheranno dei partigiani, preparatevi al suo assalto. Il meglio sarebbe che se ne andasse altrove e per incoraggiare a ciò lui ed i suoi prodi si potrebbe forse dar loro un sussidio, purché si tolgano dai piedi».
Garibaldi non si tolse dai piedi ma, al contrario, ricevette dal governo provvisorio di Milano un comando di generale dell'armata lombarda dove condusse una campagna di guerra contro l'esercito di Radetzki.
Dopo la campagna Garibaldi era di nuovo a Genova, dove lo raggiunse Anita, e in Liguria, dove tenne discorsi patriottici a San Remo, a Oneglia, e dove, a Cicagna, accettò di presentarsi candidato al Parlamento Sardo risultando eletto deputato.
A Genova, che era divenuta la sua base di azione, progetta una spedizione in Sicilia, e da Genova effettivamente parte con settanta uomini su di un vapore francese diretto a Palermo. Facendo tappa in Toscana cambia il suo progetto.
Prima si propone di assumere il comando dell'esercito rivoluzionario Toscano, poi si mette in marcia con trecentocinquanta uomini per raggiungere Venezia che si sta difendendo contro gli austriaci.
A Bologna viene raggiunto dalla notizia della rivoluzione esplosa a Roma e della fuga del Papa a Gaeta, ed allora decide di correre a Roma.
La difesa della Repubblica Romana del 1849, è una delle pagine più gloriose della storia del Risorgimento nazionale e della storia garibaldina.
Dopo la sua infelice conclusione, la fuga attraverso l'Italia, la dolorosa perdita di Anita, Garibaldi, braccato da ogni parte, riesce a raggiungere Chiavari dove l'aspetta un incredibile mandato di arresto del governo di Torino, sotto lo specioso pretesto di ingresso illegale nel paese.
Da Chiavari, fu tradotto a Genova e rinchiuso in una stanza del Palazzo Ducale e solo dopo alcuni giorni poté ripartire per riprendere la via di un secondo esilio che lo vedrà prima a Tunisi, poi a New York, come lavorante nella fabbrica di candele che Antonio Meucci aveva impiantato per dar lavoro ai profughi Italiani, quindi sarà a Panama, a Lima, a Canton, a Vancoover e a Londra.
Nel 1855 si stabilisce definitivamente a Caprera.
Il 22 maggio del 1859, alla testa dei suoi "Cacciatori delle Alpi", varca il Ticino sconfiggendo su tutti i fronti gli Austriaci e, trionfalmente, il 13 Giugno libera la città di Brescia.

4) L'impresa dei Mille

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Il '59 era stato l'anno della svolta storica. Dopo la vittoriosa guerra dei piemontesi e dei francesi alleati sugli austriaci e le annessioni dell'Emilia e della Toscana, si era finalmente formato uno stato italiano del nord che, tuttavia, non era l'Italia.
Resisteva lo Stato Pontificio superprotetto dalle monarchie cattoliche d'Europa ed il Regno delle Due Sicilie che aveva soffocato nel sangue e nelle tenaglie di un regime dispotico ogni tentativo insurrezionale.
Per rompere questo equilibrio ed una situazione di incertezza che poteva aprire le porte ad una involuzione di tutto il processo unitario risulterà decisiva l'iniziativa di Garibaldi, dei Massoni, dei repubblicani e dei patrioti rivoluzionari.
Quando lo raggiungono le notizie di una ennesima insurrezione in Sicilia, iniziata a Palermo il 4 aprile di quell'anno, Garibaldi è alle prese con la questione di Nizza che il governo di Torino ha ceduto alla Francia, decisione che Garibaldi contesta aspramente e senza successo e contro la quale progetta di originare una sollevazione nella sua città natale.
Premuto soprattutto dagli esuli siciliani e meridionali che lo scongiurano «a nome degli amici comuni, per l'ora della rivoluzione, per carità della povera isola, per la salute della patria intera», Garibaldi vive giornate che i suoi biografi raccontano come giornate di indecisione e di incertezza.
Negli ultimi anni, fattosi esperto di questioni militari, aveva sempre rifiutato di gettarsi in imprese che giudicava disperate e che poi infatti erano fallite tragicamente; l'impresa che gli viene proposta, sulla carta, dati alla mano, sembra una follia.
Il Regno del Borbone è difeso da un esercito di centoventimila uomini, considerato uno tra gli eserciti più forti d'Europa, la Sicilia è difesa per giunta da una potente flotta che controlla le vie del mare e il governo di Torino è contrario alla spedizione anche se non interverrà per impedirla.
Ma i Garibaldini sono temperati da esperienze durissime e hanno già conosciuto il campo di battaglia e anche se l'armamento è poverissimo sono tutti pervasi di appassionato idealismo, di entusiasmo e di volontà di lottare.
Dal 15 aprile Garibaldi e gli uomini a lui più vicini si erano installati a Villa Spinola, ospiti di Augusto Vecchi che aveva combattuto con lui alla difesa di Roma e il primo maggio Garibaldi prende la decisione di partire.
In pochi giorni si raccolgono le forze e i mezzi disponibili ed il 5 maggio Garibaldi comunica a Vittorio Emanuele la sua decisione scrivendogli: «Il grido di sofferenza che dalla Sicilia arrivò alle mie orecchie ha commosso il mio cuore e quello di alcune centinaia di miei vecchi compagni d'arme». Scrive anche ai direttori della Società dei Vapori Nazionali dell'armatore Rubattino che la notte dovranno lasciarsi occupare e sottrarre i due bastimenti che verranno ribattezzati «il Piemonte» e «il Lombardo».
Racconta il garibaldino Cesare Abba che partecipò alla spedizione: «La sera di quel 5 maggio, coloro che erano destinati a partire, ricevuto un ordine aspettato tanto, chi da solo, chi con qualche amico, come se andassero a diporto, così consigliati per non dar nell'occhio della Polizia, cominciarono a uscir da Genova, per la Porta Pila sulla via del Bisagno.

Andarono alla Foce o a Quarto. «Piccole cose tra le grandi, nelle ore dell'attesa, qua e là per le vie di Quarto, sugli usci delle casupole, quelli che dovevano partire, si sentivano dare dai pescatori, dai marinai certi consigli da semplici, ma d'amore».
Quelli che dovevano partire erano poco più di mille, uomini di ogni età, di ogni classe sociale, di ogni professione con una prevalenza di medici, di studenti, di professionisti, di artigiani.
Tra loro, annota lo storico garibaldino Guerzoni, v'era «il patriota sfuggito per prodigio alle forche austriache ed alle galere borboniche, il siciliano in cerca della patria, il poeta in cerca di un romanzo, l'innamorato in cerca dell'oblio, il notaio in cerca di un'emozione, il miserabile in cerca di un pane, l'infelice in cerca della morte».

5) L'unità d'Italia la questione sociale e quella politica

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Partiti il sei maggio da Quarto, sbarcati I'11 a Marsala, i garibaldini in pochi mesi e attraverso una serie ininterrotta di scontri vittoriosi, sorretti dai volontari siciliani e meridionali e dall'appoggio delle popolazioni, travolsero il regime borbonico, sconfissero un esercito che si sfaldò di fronte alla decisione ed alla volontà di vittoria di Garibaldi, portarono a compimento la più gran­de impresa dei Risorgimento nazionale.
La campagna vittoriosa dei Mille, partita da Quarto a maggio, nell'ottobre, a Napoli, realizzava la congiunzione unitaria tra l'Italia del nord e l'Italia del sud.
Come tutte le grandi imprese essa aveva avuto dalla sua grandi ideali, una forza morale ed una volontà di lotta che si mostrarono più forti di ogni ostacolo e di ogni avversità.
Garibaldi aveva sempre pensato all'unità d'Italia come condizione della sua rinascita, del suo progresso, della trasformazione della società italiana solcata da grandi arretratezze, da profonde ingiustizie sociali e assai debole nella difesa dei fondamentali diritti dell'uomo.
Nell'Italia unita riemerge con forza la questione sociale e la questione politica cui Garibaldi dedicherà, dopo aver partecipato a nuove imprese militari, talune sfortunate e altre vittoriose, la restante parte della sua vita.
Garibaldi fu principalmente un uomo d'azione ma nell'azione egli aveva rinsaldato i principi propri di una concezione politica, sociale e laica che non lo avevano mai abbandonato.
Garibaldi fu sino alla sua morte un fiero anticlericale, avversava il clero perché alleato della reazione, nemico delle nuove idee e delle nuove conquiste di libertà e di progresso. Tuttavia monaci, sacerdoti e seminaristi combatterono con Lui e per Lui morirono in battaglia o fucilati dallo straniero.
Garibaldi credeva nell'essere supremo che esaltava come "regolatore del moto e dell'armonia dei mondi", credeva " nell'eterna verità" che sta alla base della "religione del vero" e che così descriveva: "Bella, semplice, sublime è la religione del vero: essa è la religione dell'essere supremo, poichè tutta la dottrina dell'essere supremo poggia sull'eterna verità."

Difendeva, con orgoglio, la sua spiritualità e la sua fede nell'essere supremo, affermando "all'esistenza sua io credo, così come credo all'immortalità dello spirito mio" .
Fino alla sua morte continuò a respingere l'accusa di essere ateo invitando a "non dar retta ai caluniatori",difendendo con orgoglio la sua spiritualità religiosa che indicava "aver per base la morale del precetto fate agli altri ciò che vorreste per voi" e dichiarando "Alcuno va a credere che io voglia negare l'esistenza dell'essere supremo, eppure vedrà ch'io non ho voluto provare altro che la inutilità e la perversione dei preti".
All'oscurantismo della Chiesa ufficiale egli contrapponeva la religione della laicità basata sul trinomio Libertà, Uguaglianza, Fratellanza.
Garibaldi fu iniziato Massone nel 1844 nella loggia [selvaggia] "Asil de la vertud" di Rio Grande del Sud e regolarizzato il 18 agosto 1844 nella loggia "Amis de la patrie" di Montevideo all'obbedienza del Grande Oriente di Francia.
A New York frequentò la loggia "Tompkins" e le sue insegne massoniche, usate in quella loggia, furono il 24 gennaio 1883 donate, in seduta solenne, alla Massoneria Ligure.
Nella Prima Costituente Massonica Italiana, tenutasi a Torino dal 24 dicembre 1861 al 2 gennaio 1862 ed in cui fu eletto Gran Maestro Costantino Nigra, Garibaldi fu acclamato "Primo Libero Muratore D'Italia" e insignito di medaglia d'oro avente da un lato l'iscrizione "Costituente Massonica Italiana" e dall'altra la dicitura "Giuseppe Garibaldi Primo Libero Muratore d'Italia". La medaglia gli venne consegnata al Varignano dove si trovava prigioniero dopo il fatto di Aspromonte.
L'11 marzo del 1862, il Supremo Consiglio del Rito Scozzese conferì a Garibaldi tutti i gradi dal 4° al 33° nominandolo contemporaneamente Presidente del Supremo Consiglio.
Il 3 luglio, dello stesso anno, l'intero Stato Maggiore garibaldino fu iniziato alla Massoneria nella loggia Palermitana "I Rigeneratori del 12 gennaio 1848 al 1860 Garibaldini".
L'Assemblea Costituente, riunitasi a Firenze il 23 maggio 1864, lo elesse Gran Maestro del Grande Oriente D'Italia.
Il 30 aprile 1872 l'Assemblea, finalmente riunita a Roma, approvò per acclamazione la nomina del Generale Giuseppe Garibaldi a Gran Maestro Onorario a Vita.
Pur avendo trascorso gran parte della sua vita passando da un campo di battaglia ad un altro egli si considera un uomo di pace, amante e difensore della pace. Aderendo alla «Lega per la fratellanza la libertà e la pace», una organizzazione internazionalista e pacifista che viene fondata anche dietro il suo impulso, egli dichiara: «Dico e affermo decisamente che lo schiavo ha diritto di fare la guerra ai tiranni. Questo è il solo caso in cui credo che la guerra sia permessa».
Il programma della Lega, che ha la sua sede a Ginevra e come organo ufficiale «gli Stati Uniti d'Europa», è fortemente influenzato dalle sue concezioni politiche e di principio.


I suoi punti essenziali riguardano:
1. Autonomia della persona umana;
2. Suffragio universale;
3. Federazione repubblicana dei popoli d'Europa;
4. Libertà di pensiero, di parola, di stampa, di riunione;
5. Libertà del lavoro individuale e/o collettivo, senza sfruttamento;
6. Libertà dei contratti, di coalizione e di associazione;
7. Istruzione di primo grado, laica, gratuita, obbligatoria;
8. Parità di diritti per i due sessi;
9. Accesso alla proprietà individuale e col­lettiva col lavoro, facilitato a tutti e a tutte;
10. Separazione della Chiesa dalla scuola e dallo Stato;
11. Sostituzione delle armate permanenti con le milizie nazionali;
12. Abolizione della pena di morte.

6) La concezione del pensiero laico democratico e riformista

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Nella valutazione dei fatti sociali egli manifesta uno spirito di realismo e di gradualismo ed una grande fiducia nel progresso.
Contrappone continuamente i ricchi ai poveri, gli sfruttatori agli sfruttati, gli oppressori agli oppressi, quella che egli definisce la «classe mangiante» alla «classe dei mangiati».

Si dichiara favorevole ad una sorta di «collettivismo maggiore» e cioè ad un intervento dello Stato a sostegno e in difesa della «classe più numerosa e più povera».
Lanciando il programma della Lega democratica, contrappone una linea concreta di riforme istituzionali, sociali, civili, economiche, alle visioni utopistiche, palingenetiche, salvifiche.
Collocato nell'area dei democratici progressisti e riformisti, egli polemizzava in primo luogo con gli anarchici. In una lettera ad Andrea Costa lo invita a scegliere il terreno della concretezza, a battersi per il suffragio universale e per la Costituente.
Il giornale «La Plebe», nel difendere la «scuola progressista e riformista» che «non distrugge la proprietà ma la trasforma», che «non ammette lo Stato onnipotente ma riconosce la giustizia della collettività» definiva Giuseppe Garibaldi come «il fondatore del pensiero laico democratico e riformista».
Garibaldi si spense a Caprera il 2 giugno del 1882, dopo aver accentuato negli ultimi anni della sua vita la sua opposizione e la sua critica intransigente all'Italia ufficiale al fianco dell'altra Italia, laica, repubblicana, democratica e progressista.
Alla sua morte il Times di Londra scrisse «del suo coraggio senza confini ma anche delle sue doti più nobili come la magnanimità, la placidezza, l’abnegazione».
L’assemblea Nazionale Francese sospese per un giorno la seduta e la Francia lo salutò come «Cittadino del Mondo».
La stampa Austriaca, dando segno di grande nobiltà scrisse «simili figure sono i fari della storia».
La Camera e il Senato Americano votarono una mozione di cordoglio a nome del popolo Americano.
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e la figura di questo grande uomo rivive nell’immagine che di lui ci hanno tramandato i suoi conteporanei, in tutta la sua grandezza e in tutta la sua umanità.
Chiunque voglia risalire alle radici dell’Italia moderna, per cogliere la vocazione nazionale all’aspirazione della libertà al progresso, all’uguaglianza, lo spirito di indipendenza e di pace non può non incontrarsi con la figura e l’opera di Giuseppe Garibaldi eroe dei due mondi.

La storia di Righetto:
il giovane trasteverino simbolo dei ragazzi caduti in difesa della gloriosa Repubblica Romana del 1849

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Era il 29 giugno 1849 quando “a la Renella”, presso Ponte Sisto, a Righetto scoppiò tra le mani un ordigno che lo uccise. La sua statua in bronzo oggi è sul Gianicolo tra Giuseppe Garibaldi e gli altri eroi della Repubblica Romana. “Giovane trasteverino simbolo dei ragazzi caduti in difesa della gloriosa Repubblica Romana del 1849”: così recita l’epigrafe posta sulla base di marmo di circa un metro e mezzo che sostiene la statua in bronzo situata nel piccolo parco chiuso ai lati dalle Passeggiate del Gianicolo dedicata al piccolo grande eroe trasteverino.
Righetto ha 12 anni quando una mattina, sulla spiaggetta della Renella sotto Ponte Sisto, una bomba gli cade sulle mani, troncandogli il respiro e facendo a pezzi il suo amato cane Sgrullarella. È il giugno del 1849. In questo tempo a Roma - dove è stata proclamata una Repubblica in seguito alla cacciata di Papa, ufficiali cardinali e beato esercito - imperversano proiettili e bombe. A scatenarli è l’armata francese che ha raccolto la richiesta da parte di Papa Pio IX, nel frattempo rifugiatosi a Gaeta, di un immediato e santissimamente necessario massacro.
Da tutta Italia, ma anche da oltre confine, giungono giovani e adulti a presidiare la conquistata libertà di un popolo asfissiato dal giogo papalino. La difesa viene condotta dal generale Giuseppe Garibaldi che proprio sul colle del Gianicolo, in Villa Aurelia, ha il suo quartier generale. Ci troviamo nella fase finale dello scontro tra repubblicani e francesi: il tramonto della straordinaria esperienza della Repubblica è imminente. Il generale Oudinot è riuscito ad occupare alcuni luoghi strategici della difesa di Roma.
La città è presa d’assedio. In Trastevere, uno dei quartieri maggiormente bombardati, si fa fronte all’attacco come si può. Fra tutti si distingue un insolito gruppo di combattenti: dei ragazzini. Anzi, dei “regazzini” - come si dice in romanesco - che escogitano un sistema di protezione infallibile, seppure rischiosissimo. Quando le bombe finiscono sul suolo basta premere sulle loro micce, con uno straccio bagnato, per disinnescarle. Tante vite vengono così risparmiate.
Righetto è il capo di questa banda di piccoli arditi della Repubblica Romana. Senza padre né madre lavora, come garzone, presso un fornaio per guadagnarsi un pezzo di pane. A formare la sua famiglia c’è solo Sgrullarella, un’affettuosissima cagnolina. Come casa, la strada. Giuseppe Garibaldi ha talmente eccitato il ragazzo da spingerlo a compiere le azioni più temerarie. Fino a quella terribile mattina. Da allora, Righetto s’è fatto mito, esempio illuminante. I suoi coetanei d’oggi, in nutriti gruppi, giungono al Gianicolo a fargli visita e a conoscere la sua storia. Con loro e per loro ci sono gli “Amici di Righetto”, un’associazione che dal 1989 si batte per dare un’adeguata visibilità a Roma alla figura di questo eroe del Risorgimento.

E l’impresa ha avuto l’esito sperato. In questa porzione di Gianicolo, in mezzo a file di busti di illustri combattenti, s’erge infatti la sua statua, copia perfetta de “L’Audace Righetto’”, opera in marmo situata sullo Scalone d’Onore di Palazzo Litta a Milano e realizzata nel 1851 da Giovanni Strazza. Roma ha dunque finalmente reso omaggio a un piccolo grande uomo con un’opera d’arte e con l’istituzione del Premio “Righetto”, rivolto agli studenti delle scuole d’ogni ordine e grado. Attraverso questa manifestazione, l’Associazione “Amici di Righetto” ha infatti intenzione di intensificare ancora di più la memoria del sacrificio dell’eroe trasteverino.

Questa iniziativa deve essere fortemente condivisa perchè si deve partire proprio dalle scuole per costruire e garantirci un futuro di piena libertà e sana democrazia.

Anita Garibaldi

Giuseppe Garibaldi

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